I colori della notte
Marco Cicala

- Il Venerdì

- 03/10/2014

Mentre noi dormiamo, loro

«lavorano».

In un romanzo, lo scrittore Arturo Pérez-Reverte si

è calato nel mondo segreto dei graffitari illegali:

«Non li approvo, ma ci rivelano qualcosa sulla crisi della nostra società».

Intervista.

Madrid.

Si chiamava Juan Carlos Argüello, ma nel milieututti lo conoscevano come Muelle.

Zazzera nera, occhiali neri, giubbotto nero, sorrisetto canaglia, veniva da Campamento, borgata del Sudovest madrileno.

A metà anni Ottanta fu l'apripista del graffitismo in Spagna.

I muri della Movida erano tempestati della sua firma: un ghirigoro a forma di molla che finiva ad aculeo, con sopra la erre cerchiata del marchio registrato.

Sberleffo all'autorialità mercificata.

Gli proposero di trasformare la sigla in griffe per collezioni di abbigliamento.

Lui rifiutò.

In obbedienza all'etica graffitara: illegale, antieconomica, a suo modo donchisciottesca.

Sorta di moderno contemptus mundi, ascetico disprezzo verso le vanità del successo terreno.

Nel

'95, un tumoraccio si trascinò via Argüello.

Non aveva nemmeno trent'anni.

Del suo lavoro resta solo una scritta sopra un

"sex shop" di calle Montera, quell'assurda strada tra Gran Vía e Puerta del Sol dove le

"putas" battono accanto al commissariato di polizia.

Di Muelle buonanima parlano come d'una specie di santo i protagonisti de

'Il cecchino paziente', l'ultimo romanzo di Arturo Pérez-Reverte, in uscita da Rizzoli.

Un thriller e un'immersione di speleologia sociale nel mondo

"writer".

Sottosuolo esoterico, settario, impenetrabile; anarcoide, ma

-almeno nelle sue forme più pure- governato da leggi, codici, lealtà quasi militari, se non monastiche.

'El francotirador paciente'

è la storia di una caccia all'uomo che scatta a Madrid, si dipana tra Lisbona, Verona e Roma, per concludersi nel ventre oscuro di Napoli.

Il maxi-ricercato

è l'imprendibile Sniper, Fantomas del graffito, ambiguo genio senza volto ispirato alla figura di Banksy, il divo invisibile della

"street art" contemporanea.

A tallonarlo in giro per l'Europa

è l'emissaria di una grande casa editrice che vorrebbe sbattere quelle spruzzate spettacolari e provocatorie in un catalogo patinato.

E da lì riguadagnare la Primula rossa dello spray al serraglio di gallerie e musei, al capitalismo dell'arte quotata in borsa.

Via via scopriremo, però, che sotto quell'inseguimento se ne nasconde un altro e un altro ancora.

E che l'arte, i quattrini, sono fumo negli occhi: i veri moventi pescano nel torbido dell'amore che si fa vendetta.

'Il cecchino paziente' si colloca in perfetta coerenza dentro l'universo romanzesco di Pérez-Reverte, da sempre attento all'umanità borderline, sia essa rappresentata dai narcos messicani, come nella

'Regina del Sud'

(2002) o dagli spadaccini mercenari del Siglo de Oro, come nella saga del capitano Alatriste.

Stavolta l'eslege

è il graffitaro.

Dice APR, 62 anni, fra i trentamila libri della sua casa-eremo alle porte di Madrid:

-Ma perché questa fissa per i marginali?

-Nelle mie storie, la parola centrale

è

"Regole".

Senza norme non puoi vivere.

Il peggio dell'essere umano l'avrebbe vinta.

Non parlo di leggi, ma di codici personali, sentimentali, estetici.

.

.

Nella mia vita ho attraversato ambienti diversi, non sempre esemplari.

Scoprendo che spesso la gente cosiddetta rispettabile osserva le regole molto meno di chi rispettabile non

è.

I gruppi marginali devono attenersi a un codice per sopravvivere.

Altrimenti diventano vulnerabili, vanno in pezzi.

Per questo puniscono con estrema durezza chi tradisce, chi trasgredisce la norma.

Perché violandola ha messo in pericolo l'intero gruppo, la tribù.

Questo rende certe marginalità territori che si prestano a un'epica romanzesca.

Quando un individuo, persino il più asociale e privo di morale, sacrifica sicurezza, comfort, interesse egoistico a favore delle regole di un gruppo, raggiunge una dignità paradossale che può farne un eroe letterario.

-Ma a lei i graffiti piacciono?

-No.

Mi sembrano una porcheria e penso che sia giusto perseguirli.

Però, da scrittore, mi interessano i graffitari.

O quantomeno: i più puri fra loro.

Nemmeno i narcotrafficanti sono la mia tazza di tè.

Ma ci ho fatto un libro.

-Dei

"writer" sembra attrarla la disciplina.

-Sono qualcosa a metà tra monaci e guerriglieri urbani.

Hanno la loro divisa, felpa nera con cappuccio, il loro gergo, i loro feticci e le loro liturgie.

L'estetica

è la loro etica.

Pianificano le incursioni come commandos.

Mentre i coetanei stanno in discoteca, davanti alla tv o a un computer, loro se la rischiano.

Si scontrano con poliziotti e vigilantes.

Dicono:

"Se sono legali, non sono graffiti".

È un mondo aspro, ispido, dove guadagni meriti solo se te li conquisti sul campo di battaglia.

Come tra i toreri, i rapper, i narcos o i mafiosi, la parola chiave

è

"Rispetto".

Lo ottieni se ti sei messo in gioco, se hai fatto cose difficili, estreme.

-È stato rognoso immergersi nel giro?

-Meno che infiltrarsi tra i guerriglieri angolani o i cecchini serbi.

Sa, ho lavorato come reporter di guerra per 21 anni e ho sviluppato una certa attitudine a farmi accettare da gruppi ostili.

Ora con alcuni

"writer" siamo amici.

Ieri sera ero a cena con tre di loro.

Uscendo dal ristorante mi hanno ringraziato spruzzando il mio nome su un muro in pieno centro.

-Però dal libro l'universo graffitaro non esce glorificato.

-Perché anche in quell'ambiente trovi di tutto.

I farabutti, i traditori che non rispettano le regole, i venali, i furbi.

Quelli che vogliono solo vandalizzare e quelli violenti, ideologicamente aggressivi.

Mentre il graffitaro puro, pur essendo vagamente antisistema, non

è ideologizzato, conflittuale.

Si batte con le guardie per sopravvivere.

Non ha un messaggio.

Si autoafferma scrivendo il proprio nome come a dire: Eccomi.

Sono qui.

Scrivo dun que esisto.

Il nome

è la base di ogni elaborazione graffitara.

-Più scrittura che pittura.

-Assolutamente.

Il vero

"writer" odia la parola

"artista".

Vuole distinguersi dalla

"street art", quella tollerata e spesso sovvenzionata dalle istituzioni.

Banksy lo detestano.

Ritengono che abbia usato i graffiti per vendersi.

Il

"writer" non cerca il riconoscimento, il successo mediatico o economico.

Non si spinge fuori dal proprio territorio.

Ha ambizioni modeste.

-A chi si rivolge, a un pubblico generico o ad altri

"writer"?

-In primo luogo scrive per se stesso.

E questo

è lo stadio più narcisistico, onanistico, diciamo patologico dell'attività.

L'adrenalina, l'odore delle vernici.

.

.

Un piacere solitario.

In seconda battuta si cerca il riconoscimento del gruppo e infine l'obiettivo

è che il

"nickname", lo pseudonimo dipinto, mettiamo, su un vagone del metrò sia visto da migliaia di persone mentre vanno al lavoro.

-Ma siamo sicuri che venga notato? Non ha l'impressione che il graffito sia diventato

"routine", un elemento in più del degrado urbano, come lo

"smog", i marciapiedi sconnessi o la spazzatura non raccolta? Insomma, una roba con cui la gente convive senza farci più caso?

-È vero.

Nell'ambizione del

"writer" a una micro-notorietà di pochi secondi c'è una componente di illusione romantica.

-Per non parlare di infantilismo.

Dopotutto, scarabocchiare sul muro

è gesto primordiale del bambino.

-Sì, ma in ogni eroe letterario c'è un aspetto infantile.

-Anche se non come il povero Muelle, il writer muore giovane: difficilmente si resta graffitari dopo i trent'anni.

-Perché a lungo andare vieni preso da altre cose della vita: ti sposi, fai figli, magari trovi un lavoro.

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.

E poi per scavalcare muri, calarti in tunnel e tombini, scappare, devi essere in ottima forma fisica.

Il vero

"writer" non beve alcol, non si fa le canne né altro.

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Molti mi hanno detto:

"I graffiti mi hanno salvato da cose peggiori".

-Il romanzo spruzza veleno su certa arte contemporanea, sulla banalizzazione della parola artista.

-Ai tempi di Rembrandt o di Velázquez o eri artista o non lo eri.

Non c'era modo di esserlo se non lo eri.

Oggi invece chiunque, fosse pure il più mediocre, sia spalleggiato dalla stampa, da un critico o da un gallerista, può diventare un'icona.

La parola artista

è diventata rifugio per troppi stronzi.

-A chi pensa?

-Damien Hirst

è un truffatore.

Ma la colpa non

è sua:

è dei cretini che l'hanno fatto diventare Damien Hirst.

E poi: a lei sembrano arte le performance di Marina Abramovic?

È forse un gesto artistico questo?

(Pérez-Reverte si butta in ginocchio sul tappeto e ne rivolta un angolo).

Andassero affanculo.

-Tutti o qualcuno ne salva?

-Ma certo.

C'è tanta gente che fa cose formidabili.

Che so, i fratelli Chapman sono interessantissimi.

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La vera discriminante

è il rischio.

Vuoi essere artista? Ok.

Giocatela.

Scava nelle ipocrisie di un mondo che nasconde il dolore, la morte.

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Un'epoca dove tutto deve apparire giovane, bello, sano, dove c'è una cura per qualsiasi cosa.

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Sbattile in faccia le tragedie, le guerre, gli tsunami, gli ostaggi sgozzati davanti alle telecamere.

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Nella società di massa c'è tanta di quella roba che potrebbe essere catturata da un occhio artistico.

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E non mi riferisco solo alle catastrofi.

Mi permetta di raccontarle come mi

è venuta l'idea del romanzo.

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-Prego.

-Ero a Verona, nell'androne della cosiddetta casa di Giulietta.

Guardando i turisti mi sono accorto che,

"selfie" o non

"selfie", non si scattavano foto accanto alla statua o sotto il famoso balcone, ma davanti alle pareti che allora erano ancora ricoperte di scritte e chewing gum di

"innamorati".

L'oggetto della foto non era più il monumento ma la sua deturpazione a opera della massa.

Andando in treno a Roma, ho associato tutto questo ai graffiti che vedevo sui muri delle stazioni.

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E che ci dicono qualcosa sul nostro tempo.

-Qualcosa di non per forza rassicurante.

Nel libro si respira un clima di Europa crepuscolare.

-I graffiti selvaggi sono un sintomo di crepuscolo.

Espressione di aggressività, frantumazione, egoismo.

Ci segnalano che i vincoli sociali, solidali, si sono spezzati.

Che la collettività non c'è più, s'è rotta, bella che fottuta.
